Nell’intervista concessa al Corriere della Sera, Marco Pietrangeli ripercorre la vita accanto al campione scomparso, cercando di dare forma a un’eredità affettiva e sportiva che ha segnato un’epoca. Il primogenito di Nicola, nato dal matrimonio con Susanna Artero, racconta un rapporto costruito più sulla complicità che sulla tradizionale figura paterna: un legame che, anche negli ultimi giorni, ha mantenuto intatta la sua autenticità.
Sin dalle prime parole, il ritratto familiare assume tinte intime: «Più che un padre tradizionale, è stato un amico. In casa c’era poco, il lavoro lo portava sempre via: prima tennista, poi ministro degli esteri della Federtennis italiana agli eventi più importanti del calendario. Da piccolo lo vedevo come un giramondo: tornava sempre con una storia divertente da raccontare a noi figli. Ma quando si fermava a Roma, era presente. E con lui si facevano cose divertentissime».
I ricordi d’infanzia scorrono pieni di aneddoti, tra sport, grandi personaggi e momenti condivisi: «Abbiamo giocato a calcio, a golf, siamo andati a cena insieme, e non erano mai cene banali. A turno, comparivano i personaggi che popolavano la sua esistenza: da Virna Lisi che per noi era una figura parentale, la chiamavamo zia Virna, a Bice Valori, Paolo Panelli, Renato Salvatori, Delia Scala. E Marcello Mastroianni, con cui abbiamo fatto mille vacanze e gite in barca a Castiglioncello. Quando ero già grande ho conosciuto anche Rod Laver, uno dei suoi mitici avversari».
Il temperamento di Nicola, anche lontano dal campo, resta uno degli aspetti più riconoscibili. Alla domanda sulle sue abilità nel golf, Marco risponde con ironia: «Era discreto, in quanto autodidatta. Ma non ho dubbi che a Tiger Woods avrebbe avuto il coraggio di dire qualcosa di simile a ciò che disse a Rivera: sei fortunato che io non abbia giocato a calcio, sennò…».
Dietro il sorriso, c’è la convinzione che il vero lascito di Pietrangeli sia culturale: «La sua eredità è la stessa che hanno lasciato Sirola e Merlo, e che lasceranno i ragazzi del ‘76: gente che ha permesso al nostro tennis di vivere l’era d’oro attuale, ottenendo questi risultati. Andrebbe trasmessa alle nuove generazioni».
Inevitabile un passaggio sul mancato rapporto con Jannik Sinner, tema che negli ultimi anni ha acceso il dibattito tra gli appassionati: «Non conosco Sinner, non so cosa pensi di mio padre. Ma il ragazzo è sveglio e intelligente, avrà fatto le sue valutazioni. Ognuno vive il lutto a modo suo».
Quanto al carisma di Nicola, la risposta arriva secca: «La grande simpatia, la brillantezza, la capacità di saper parlare allo stesso modo con tutti: dal principe Ranieri di Monaco al posteggiatore. Non era colto ma sapeva esprimersi in cinque lingue. Il suo modo di fare con le persone era ammaliante: piaceva a tutti. Naturalmente anche alle donne».
Negli ultimi giorni di vita, l’emozione per la terza Coppa Davis consecutiva conquistata dall’Italia è stata un lampo di vitalità: «Due domeniche fa aveva visto l’Italia vincere la Coppa Davis per la terza volta consecutiva: non era più la sua Davis, ma si era commosso. Gli ultimi giorni sono stati complicati: era sempre lucido, ci vedeva benissimo, non è vero che aveva perso la vista. Fino a sabato ha avuto visite a casa, domenica c’è stato un peggioramento. Si è stufato, credo. Diceva: sono stanco di essere stanco. E c’è molto di Nicola Pietrangeli in questa frase».
Il commiato, preparato con cura, riflette il profondo legame di Pietrangeli con il Foro Italico: «Con la fondamentale collaborazione della Federtennis di Angelo Binaghi, che era molto affezionato a papà, abbiamo cercato di avvicinarci il più possibile a ciò che aveva chiesto. La messa sul campo da tennis non si poteva fare: sarà nella chiesa di Ponte Milvio, poco lontano. Arriveranno persone da tutto il mondo. Non mi stupirei se si affacciasse anche il presidente Mattarella».
A proposito dei cimeli, Marco ammette che la decisione è ancora da prendere: «Questa è una bella domanda, alla quale oggi non so ancora rispondere. Ne parleremo con Binaghi: forse un angolo, una stanza nei locali della Federazione potrebbe ospitarli. È un’idea ancora acerba, ne riparleremo».
Tra i trofei più amati spiccano quelli che hanno segnato la sua carriera: «Alle due coppette del Roland Garros e a quella del torneo di Montecarlo: dopo averlo vinto per la terza volta, di cui due consecutive, nel ‘68, gli avevano sostituito la replica con il trofeo definitivo».
Nel racconto, il dolore affiora soprattutto ricordando Giorgio, il figlio scomparso lo scorso luglio: «La morte di un figlio è un lutto da cui non ci si riprende più. Quando gli abbiamo dato la notizia, papà era ricoverato al Gemelli, qui a Roma. Disse: Giorgio ha smesso di soffrire, finalmente. Poi non ne ha quasi più parlato».
Il finale ha la delicatezza di un’immagine sospesa: «Se ritroverà Lea mi farà piacere. Ma, ovunque siano, credo saranno una moltitudine. Tutti gli amici di papà».
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