I Cleveland Cavaliers stanno vivendo una delle stagioni più difficili e paradossali della loro storia recente. Mai come quest’anno, infatti, l’ambizione economica della franchigia dell’Ohio si è scontrata con una realtà sportiva ben al di sotto delle aspettative. Il risultato è quella che negli Stati Uniti viene già definita come la “depressione” più costosa di sempre nella storia della NBA.
Dopo aver chiuso la regular season 2024-25 con il miglior record della Eastern Conference – 64 vittorie e appena 18 sconfitte, secondo miglior risultato di sempre per il club – il 2025-26 avrebbe dovuto rappresentare il definitivo salto di qualità. Invece, a poco più di due mesi dall’inizio del campionato, Cleveland fatica a riconoscersi.
Una crisi di risultati e di gioco
L’ultima sconfitta, arrivata sul parquet dei Chicago Bulls per 127-111, ha certificato un momento nero che dura ormai da settimane. I Cavaliers hanno perso sette delle ultime dieci partite e sono scivolati fino alle posizioni di play-in, con un bilancio di 15 vittorie e 13 sconfitte. Un numero di ko che, nella scorsa stagione, la squadra aveva raggiunto soltanto a metà marzo.
A preoccupare non è solo la classifica, ma la sensazione di fragilità mostrata contro avversari teoricamente alla portata. Nelle ultime settimane Cleveland è caduta in casa contro dei Golden State Warriors privi di Stephen Curry, Draymond Green e Jimmy Butler, ha faticato enormemente per superare Washington e poi ha perso consecutivamente contro Hornets e Bulls, entrambe con record negativo a Est.
Il peso di un progetto da record
Il tutto assume contorni ancora più inquietanti se si guarda ai numeri fuori dal campo. I Cavaliers sono oggi la squadra più costosa dell’intera NBA – e della storia della lega – con 242,4 milioni di dollari in salari e circa 164 milioni di luxury tax. Un investimento mastodontico che li colloca ben oltre il secondo “apron” salariale, limitando drasticamente ogni margine di manovra sul mercato.
Un rischio che una contender può anche accettare, ma che diventa difficile da giustificare quando i risultati non arrivano e il progetto sembra perdere solidità partita dopo partita.
L’emergenza infortuni
Come se non bastasse, la stagione è stata segnata anche da una lunga serie di problemi fisici. L’ultimo colpo è arrivato con l’infortunio di Evan Mobley, Difensore dell’Anno in carica, che contro Washington ha riportato un problema al bicipite femorale sinistro e resterà fuori tra le due e le quattro settimane.
Darius Garland continua a convivere con i fastidi al dito del piede che lo hanno già tormentato lo scorso anno ed è fermo a 16 partite saltate. Jarrett Allen ne ha perse 11, mentre Max Strus non ha ancora esordito a causa di problemi al piede. L’unico a non essersi fermato è Donovan Mitchell.
Mitchell non basta
Proprio Mitchell rappresenta il grande paradosso di questo inizio di stagione. A livello individuale, la guardia sta vivendo probabilmente il miglior anno della sua carriera: 30,7 punti di media, quinto miglior realizzatore della NBA, con 4,5 rimbalzi e 5,5 assist. Numeri da superstar assoluta che però non stanno trovando riscontro nei risultati collettivi.
La squadra allenata da Kenny Atkinson appare discontinua, fragile mentalmente e incapace di reagire alle difficoltà, nonostante un talento sulla carta da vertice della Conference.
Tempo per reagire, ma il margine si assottiglia
In questo momento Cleveland si trova a sette partite di distanza dalla vetta dell’Est, occupata a sorpresa dai Detroit Pistons. Il campionato è ancora lungo e, sulla carta, il tempo per raddrizzare la rotta non manca. Tuttavia, se la situazione non dovesse cambiare in fretta, le prossime settimane rischiano di diventare decisive per il futuro di quello che è, senza mezzi termini, il progetto più caro nella storia della NBA.
Per i Cavaliers, la domanda non è più se possono ambire al titolo, ma se riusciranno almeno a uscire da una crisi che pesa come un macigno, dentro e fuori dal campo.