L’ex leggenda del tennis Boris Becker ha aperto il suo cuore in una lunga intervista al Corriere della Sera, ripercorrendo i mesi più bui trascorsi in carcere e la lenta risalita dopo aver perso tutto. “Quando perdi ciò che consideri importante — la libertà, il denaro, le persone che ami — l’unica cosa che resta è il carattere. È ciò che mi ha fatto sopravvivere”, racconta il sei volte campione Slam, oggi 58enne.
Becker vive oggi a Milano con la moglie Lilian, in attesa del loro primo figlio, ma ammette che le ombre del carcere lo accompagnano ancora. “Ho avuto paura di morire due volte”, rivela. “Una, quando un detenuto — un assassino — mi venne addosso urlando. Avevo in mano il vassoio del pranzo, gli risposi, ma in sette o otto mi protessero. Tre giorni dopo quell’uomo venne in lavanderia, cadde in ginocchio e mi baciò la mano. Ho capito allora che lo aveva fatto per ristabilire il rispetto. In carcere, il rispetto è la legge non scritta”.
Da quella cella di Wandsworth, a un miglio da Wimbledon, Becker ha avuto tempo di riflettere su una parabola sportiva e umana incredibile: “Da ragazzo ero il più giovane campione del torneo, quarant’anni dopo finivo in prigione. Ma sono sempre stato un ‘bubble breaker’, uno che rompe le bolle. Prima mi criticano, poi mi imitano”.
Nell’intervista, Becker svela anche un retroscena che riguarda Jannik Sinner. “È vero, Jannik mi aveva chiesto di diventare il suo coach, ma doveva restare un segreto. Aspettavo la sentenza di Londra e non potevo prendermi l’impegno. Però non volevo lasciarlo solo: gli suggerii due nomi, uno era Darren Cahill. Per me, il migliore”.
Becker non mostra rimpianti: “Quattro Slam a 24 anni: non credo che avrei potuto fare meglio di Cahill e Vagnozzi. Jannik era già un portento di testa, e il successo del suo team parla da solo”.
Sulla scelta di Sinner di saltare la Coppa Davis, Becker è comprensivo: “Ho letto le critiche, ma capisco Jannik. Io vinsi la Davis due volte, nell’88 e nell’89, e l’anno seguente non la giocai. Avevo bisogno di riposare. Il tennis è uno sport individuale e non siamo macchine. L’Italia è fortunata ad averlo”.
Becker osserva oggi il mondo del tennis con disincanto: “I ragazzi di oggi sono poco curiosi, vivono in una bolla. Pensano solo a dritto e rovescio, ma quando finisce la carriera e non c’è più il team a risolvere i problemi, restano spaesati. Non è facile rompere quella bolla”.
E conclude con un pensiero che suona come un manifesto personale: “Ora so che puoi gettarmi nella peggiore situazione e troverò comunque il modo di venirne fuori”.
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